COLLETTIVO MICORRIZE
Il termine «micorriza» è composto dalle parole greche antiche per «fungo» e «radice». La micorriza è compost. È un insieme che supera la somma delle sue parti. Nelle micorrize le radici delle piante e i miceti si intrecciano intimamente in reti relazionali sotterranee, complesse e fitte, fino al punto che nessuno dei due elementi riesce a prosperare senza il contatto e lo scambio simpoietico con l’altro. Le micorrize sono matasse simbiotiche, una relazione costante e produttiva tra due regni che l’occhio del tassonomista ha visto per secoli come irriducibili. Le micorrize sono ragnatele e ricami che si diffondono nel suolo, dove ife fungine e radici arborescenti si intrecciano, abbracciano, espandono. Sono matasse che generano fenomeni. Le micorrize sono mappe che ci obbligano a pensare allo spazio come il luogo dell’incontro, un incontro che cambia il corpo e lo rimesta nel mondo affollato, un mondo in cui non si è mai sol*. Le micorrize sfuggono le categorie classiche di cui ci serviamo per descrivere l’esistente: contatto, prossimità, intreccio, relazione e scambio sostituiscono distanza, chiusura, alienazione, separatezza. Nel rapporto micorrizico la pianta fornisce al fungo carboidrati, il fungo fornisce alla pianta acqua e nutrimenti derivati dalla digestione extracellulare di rocce, legno e materia organica. E se alleniamo lo sguardo, possiamo vedere come le micorrize siano in relazione tra loro su scala molto più grande: nel sottosuolo questi tentacoli trans-regno legano tra loro funghi e piante appartenenti a specie diverse, disegnando trame che rompono la simbiosi “uno a uno”. Possiamo dire che è il woodwide web: dove stanno le micorrize tutto è legato a qualcosa che è legato a qualcun altr*! Le micorrize sono le relazioni che producono le foreste. Sono autostrade lungo le cui corsie corrono nutrienti da distribuire a chi ha più fame. Sono canali lungo cui passano informazioni e il mondo boschivo può parlare e comunicare. Guardare le micorrize con gli occhi immersi nell’humus vale a prendere coscienza di come i confini del fungo e quelli della pianta si confondono, e di come le partiture che scandiscono le grammatiche del soggetto individuale si trasformano nell’emersione di una relazione che viene prima delle entità che la compongono. Diventare micorriza è un gesto, un desiderio, una necessità.
MICORRIZE è un progetto di ricerca nato dall’incontro tra Marta Lucchini e Rosa Lanzaro
MICORRIZE ha la vocazione del collettivo, aperto al confronto e alla collaborazione con altr* artist*, artigian*, ricercatrici e ricercatori, pensatrici e pensatori.
MICORRIZE indaga il linguaggio delle arti performative contaminandolo con quello delle arti visive.
MICORRIZE si nutre di contaminazioni, alleanze inedite, scambi, mutazioni.
MICORRIZE ha come obiettivo quello di esplorare nuove modalità di ricerca, creazione, promozione e diffusione di pratiche artistiche. Lo scopo è la creazione di azioni performative, spettacoli, installazioni, laboratori nonché la diffusione dell’arte fuori dai perimetri abituali.
MICORRIZE esce dal teatro per aprire mondi creativi, compiere azioni poetiche in ambienti selvatici, rurali, urbani, pubblici e privati, istituzionali e off.
La ricerca di MICORRIZE ruota attorno al rapporto tra corpo e paesaggio, investigandone la reciprocità e permeabilità, considerando la loro relazione come fondante dell’opera.
L’installazione che accoglie l’azione indaga i caratteri del luogo sottolineandoli con piccoli interventi mimetici, volutamente quasi invisibili, e mettendoli in relazione al corpo e al movimento.
La danza si genera nell’intra-azione tra corpi, spazi, tempi e atmosfere che producono mondi dai quali si lascia trasformare. «Perché i nostri corpi dovrebbero terminare con la pelle?» si chiedeva Donna Haraway nel suo Manifesto cyborg. Prediamo il passo dalla sua domanda: la pelle, e con essa il corpo tutto che ne sarebbe contenuto, diventa soglia più che frontiera. La danza così si apre al paesaggio intorno, il corpo abita l’installazione, ne viene a far parte, le dà vita e prende vita da essa in un loop multi-direzionale dove sensibilità e movimento sono commistioni di incontri: corpo-materia come la pietra, l’argilla, l’acqua, il legno, il cielo… corpo che si fa paesaggio nel paesaggio e cambia cambiando, in un divenire altr*.
MICORRIZE si dedica prevalentemente alla ricerca in spazi aperti, naturali o urbani, sentendo l’urgenza di uscire dai luoghi convenzionali e compiere azioni che simbolicamente sondino la valenza politica del corpo, della relazione, dell’arte, per accendere o sovvertire punti di vista sul mondo che viviamo, per convocare i corpi in luoghi altri, di confine, dove inventare nuove modalità di condivisione e partecipazione.
Sperimentando la residenza come pratica di ascolto, immersione ed abitazione del paesaggio, come dialogo con gli elementi, l’ambiente, gli abitanti (esseri umani animali vegetali minerali), MICORRIZE riporta il corpo all’aperto come atto politico, atto di cura che ricuce e coltiva il legame tra umano e non-umano.
La cura come attitudine necessaria alla creazione e alla relazione. Avere cura è una inclinazione, un muovere verso l’altro da sé, un mantenersi aperti e in ascolto, per fare spazio e generare nuove forme e nuove dinamiche dell’abitare questo pianeta e della relazione.
Il processo è il fulcro della ricerca. Al centro sta ciò che realmente accade e trasforma il reale, è l’intessere relazioni con l’intorno, creare la trama e l’ordito per poi venire alla luce ed offrirsi allo sguardo del pubblico, o meglio, di coloro che partecipano a quel rituale collettivo che è la performance.
Un’altra amica concettuale ci viene in soccorso. Leggiamo le parole di Karen Barad, pensatrice queer e fisica teorica, in Meeting the Universe Halfway. In questo saggio Barad ci invita a riflettere su un fatto curioso: il fotone si comporta come un’onda o come una particella a seconda delle posture e dei dispositivi di visualizzazione impiegati da chi osserva. L’occhio, il corpo, la presenza del pubblico bucano la partitura classica di un teatro meramente fruitivo: chi guarda, esperisce e dunque compromette, genera, disturba, contribuisce, conduce. Il pubblico è performer e la/il performer è pubblico: tutt* attanti su un palcoscenico che è lo spazio condiviso e saturo di materia, affetto, pensiero e respiro.
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The word “mycorrhiza” is composed of the ancient Greek words for “fungus” and “root.” Mycorrhiza rhymes with compost. Indeed, it is a whole that exceeds the sum of its parts. In mycorrhizae, plant roots and mycetes are so intimately intertwined in dense, complex, subterranean, relational networks that neither of the two elements can flourish without sympoietic contact and exchange with the other. Mycorrhizae are symbiotic skeins, an ongoing and proactive relationship between two realms that the taxonomist’s eye has for centuries seen as irreducible to a whole. Mycorrhizae are webs and embroideries that propagate through the soil, where fungal hyphae and arborescent roots intertwine, embrace, expand. These skeins generate phenomena. Mycorrhizae are maps that require us to think of space as a locus of encounters that change the body and weave it through the crowded world in which one is never alone. Mycorrhizae escape the classical categories we use to describe what exists: contact, proximity, entanglement, relationship, and exchange replace distance, closure, alienation, and separateness. In the mycorrhizal relationship the plant provides the fungus with carbohydrates and the fungus provides the plant with water and nutrients derived from the extracellular digestion of rocks, wood, and organic matter. And if we train our gaze, we can see how mycorrhizae are related to each other on a much larger scale: in the underground, their trans-kingdom tentacles bind together fungi and plants belonging to different species, creating patterns that exceed the “one-to-one” symbiotic process. Where there are mycorrhizae, everything is linked to something linked to someone else! Mycorrhizae are the relationships that produce forests. They are highways whose lanes transport nutrients to be distributed to those who are hungriest. They are channels along which information passes and the woodland world can speak and communicate. Looking at mycorrhizae enables us to become aware of how the boundaries of the fungus and those of the plant blur, and of how the assumptions that articulate the grammar of the individual subject are transformed through the emergence of a relationship that constitutively precedes the entities that compose it. Becoming mycorrhiza is a gesture, a desire, a necessity.
COLLETTIVO MICORRIZE is a research-project born of the meeting of Marta Lucchini and Rosa Lanzaro.
COLLETTIVO MICORRIZE has the vocation of a collective open to contacts and collaborations with other artists, artisans, researchers, and thinkers.
COLLETTIVO MICORRIZE explores the language of the performing arts by contaminating it with visual arts’ most profound and transforming insights.
COLLETTIVO MICORRIZE is nourished by contaminations, unprecedented alliances, exchanges, mutations.
COLLETTIVO MICORRIZE aims to develop and expand new ways of research, creation, promotion, and the dissemination of artistic practices. Its purpose is the creation of performative actions, exhibitions, installations, and workshops as well as the spread of art outside its accustomed perimeters.
COLLETTIVO MICORRIZE moves out of the theater to unlock new creative worlds, to perform poetic actions in wild, rural, urban, public, private, institutional, and non-institutional environments.
COLLETTIVO MICORRIZE’s research revolves around the interplay between bodies and landscapes, investigating their reciprocity and permeability, considering their mutual relationship foundational.
Our installations accommodate the action by investigating the locations’ characteristics and emphasizing them with small mimetic interventions, deliberately almost invisible, in connection with the body and movement.
Our dance is generated in the intra-action among bodies, spaces, temporalities, and atmospheres that produce influencing worlds. “Why should our bodies end in skin?” wondered Donna Haraway in her Cyborg Manifesto. We take our step from her question: the skin, and the whole body that would be contained within it, becomes a threshold rather than a frontier. Dance thus opens to the surrounding landscape; the body inhabits the installation becoming part of it; it gives life to the space and takes life from it in a multi-directional loop where sensibility and movement are intermingled encounters: corporeal matter like stone, clay, water, wood, and sky… bodies that become landscape in the landscape and change by changing, in a permanent becoming-other.
COLLETTIVO MICORRIZE carries out her artistic research mainly in open spaces – whether natural or urban – feeling the urgency to step out of conventional places, and, once plunged into such environments, aspires to perform actions that symbolically probe the political valence of the bodies, of their mutual and complex relationships, and even of art itself to illuminate or subvert points of view in the world we inhabit.
COLLETTIVO MICORRIZE summons different bodies to different places, in order to create contact zones where new modes of sharing and participation can be experienced.
Experimenting with the residency as a practice of listening, immersion, and habitation of the landscape, but also as a dialogue with the elements, the environment, the inhabitants (humans, animals, vegetables, and minerals), COLLETTIVO MICORRIZE brings the body into the open as a political act of care, able to mend and cultivate the bonds between the human and non-human worlds.
In COLLETTIVO MICORRIZE care is a necessary disposition for creating and relating. To take care is a moving toward others, a keeping oneself open and attentive: it means to open unprecedented spaces and generate new forms and dynamics of inhabiting this Planet.
The process is at the heart of our research. Indeed, the core of our projects is always what
transforms the real, namely the weaving of relationships with surroundings, creating the warp and weft, and then bringing this weaving to light and offering it up to the gaze of the public, or rather, of those who participate in the collective ritual that is the performance.Another conceptual friend comes to us, here. We read the words of Karen Barad, a queer thinker, and a theoretical physicist, in Meeting the Universe Halfway. In this essay Barad invites us to reflect on a curious fact: the photon behaves as a wave or as a particle depending on the postures and viewing devices employed by the observer. Likewise, the eye, the body, and the presence of the audience perforate the classic score of a merely fruitive theater: the observer, namely who experiences the performance, is a subject able to compromise herself in the piece, by generating, disturbing, contributing, leading. The audience is the performer, and the performer is the audience: all as actants on a stage that is the common and saturated space of matter, affect, thought, and breath.